La toxoplasmosi è una malattia infettiva, piuttosto diffusa, il cui responsabile è il parassita toxoplasma gondii. Il più delle volte non ci si accorge nemmeno di averla contratta, perché si presenta in forma asintomatica o con sintomi lievi e molto simili a quelli di una banale influenza. Tuttavia, la toxoplasmosi in gravidanza può portare delle conseguenze gravi ed essere pericolosa per il bambino. È bene fare attenzione e analizzare le cause di trasmissione i sintomi, i pericoli, la prevenzione possibile, i test disponibili e le terapie necessarie.
Toxoplasmosi: cause di trasmissione
La toxoplasmosi è una delle infezioni parassitarie più comuni al mondo. Il parassita che ne è la causa è in grado di infettare diverse tipologie di animali a sangue caldo, tra cui mammiferi e volatili, compreso l’uomo. Quest’ultimo può contrarre il toxoplasma consumando cibo crudo oppure entrando in contatto con escrementi di animali infetti, in particolare gatti. Il gatto, infatti, rappresenta l’ospite definitivo, poiché è solamente nei felidi che il parassita in questione riesce a riprodursi. Le feci emesse da un gatto infetto da toxoplasmosi rilasciano nell’ambiente oocisti, vale a dire le cellule uovo che fungono da agenti infettivi.
Toxoplasmosi: sintomi e pericoli
Le infezioni da toxoplasmosi solitamente non causano sintomi eclatanti negli esseri umani adulti. Nella maggior parte dei casi, si riscontrano, da una settimana ad un mese dopo il contagio, segni simili a quelli di una normalissima influenza, come dolori muscolari, linfoadenopatia, stanchezza, febbre e mal di testa. Raramente e quasi sempre in soggetti già immunodepressi, si manifestano, invece, sintomi più gravi, come astenia, ingrossamento di fegato e milza, problemi alla vista e convulsioni.
La toxoplasmosi in gravidanza ha tutt’altri effetti e non deve essere presa sottogamba. Se la futura mamma contrae l’infezione durante la gravidanza, non è automatico che la malattia venga trasmessa al bambino. Qualora ciò avvenga, però, il nascituro potrà essere colpito da toxoplasmosi congenita. Le conseguenze di una simile evenienza sono decisamente spiacevoli: se il parassita arriva al feto attraverso la placenta, può provocare l’insorgere di malformazioni, danni al sistema nervoso centrale che possono portare ritardo mentale o epilessia, lesioni agli occhi causa di cecità, o addirittura un parto prematuro o unaborto, soprattutto se il contagio si verifica nei primi mesi di gravidanza, mentre minori sono i rischi nell’ultimo trimestre.
Prevenzione
I pericoli non sono pochi e purtroppo non esiste ancora un vaccino in grado di sventare il rischio toxoplasmosi, ma fortunatamente è possibile prendere delle precauzioni per scongiurare il contagio. Un mito da sfatare è quello secondo cui sia necessario liberarsi del gatto di casa non appena si scopre di essere in dolce attesa. In realtà, è stato dimostrato che il rischio di contrarre la toxoplasmosi in gravidanza semplicemente stando a contatto con gatti di appartamento è abbastanza trascurabile.
I gatti domestici, infatti, hanno solitamente abitudini alimentari che non prevedono cibi crudi, principale ricettacolo del parassita. Ad ogni modo, è bene regolare l’alimentazione del gatto, eliminando carni crude o poco cotte. Con qualche piccolo accorgimento non ci sarà nessun motivo per allontanare il proprio gatto da casa durante la gravidanza. Ad esempio, si potrebbe affidare a qualche altro membro della famiglia il cambio della lettiera, così da evitare ogni tipo di contatto con gli escrementi del gatto. Se ciò non è possibile, basterà indossare dei guanti mentre lo si fa e lavarsi molto bene le mani subito dopo con dei detergenti efficaci. Un’altra accortezza può essere quella di cambiare la lettiera almeno una volta al giorno, in quanto le oocisti del parassita, una volta espulse con le feci, richiedono almeno 24 ore per sviluppare spore e diventare effettivamente infettive. Evitare che il gatto passi del tempo all’aperto, fuori dal nostro controllo, è un’ulteriore precauzione che deve essere presa in considerazione.
I rischi maggiori di contrarre la malattia riguardano, però, l’alimentazione. Per prevenire la toxoplasmosi è bene evitare il consumo di alimenti crudi, in particolare insaccati e carne cruda. È fondamentale consumare esclusivamente carni cotte e osservare con cura le più comuni norme igieniche,come lavarsi le mani dopo aver toccato carne cruda o uova. La carne va consumata sempre cotta, perciò vanno evitati salumi e insaccati (meglio non mangiare prosciutto crudo e bresaola in gravidanza, così come salsiccia, salame e wurstel), carpaccio o carne troppo al sangue. È consentito, invece, il prosciutto cotto in gravidanza e anche la mortadella non è male, perché le alte temperature a cui sono sottoposti nella loro produzione li renderebbero sicuri. Viene consigliato anche di evitare di bere il latte senza averlo prima bollito. La verdura consumata cruda va lavata accuratamente, magari aggiungendo all’acqua del bicarbonato o dei disinfettanti alimentari appositi. La frutta che cresce sugli alberi è sicura, mentre bisogna prestare maggiore attenzione a quella raccolta sul terreno: ad esempio, sarebbe opportuno evitare le fragole in gravidanza.
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Complesso TORCH e Toxo test
Esistono dei test di laboratorio per diagnosticare la toxoplasmosi. Inoltre, alle donne in gravidanza vengono prescritti degli appositi esami volti a constatare se sono immuni o sensibili all’infezione. Si tratta del Complesso TORCH e del Toxo test.
Il Complesso TORCH comprende una serie di analisi estremamente consigliate alle donne in dolce attesa, per assicurarsi che le future mamme non siano portatrici di patologie infettive gravi, che potrebbero trasmettere al loro bambino, come la toxoplasmosi, ma anche l’HIV, la rosolia e l’herpes simplex.
Il Toxo test è un esame in grado di rilevare la presenza di anticorpi contro la toxoplasmosi nell’organismo. Viene effettuato attraverso un normale prelievo di sangue, che, una volta analizzato, mostra il numero di anticorpi IgG e IgM, cioè immunoglobuline contro il parassita. Le IgM sono presenti quando l’infezione è in atto, mentre le IgG segnalano che l’organismo è stato colpito dal parassita in passato. I risultati di quest’indagine possono essere molteplici.
Se le IgM e le IgG sono entrambe negative: significa che l’infezione non è mai stata contratta. Non essendo presenti anticorpi, dunque, in questo caso, l’attenzione alle norme di prevenzione dovrebbe essere doppia.
Se le IgM sono negative e le IgG positive: significa che il soggetto esaminato ha già contratto la toxoplasmosi in passato, ma l’infezione non è in corso. In questa circostanza, la donna è immune e non dovrebbero esserci rischi per il bambino.
Se le IgM sono positive e le IgG negative: ci troviamo di fronte ad una donna che non aveva mai contratto la toxoplasmosi in passato, ma che, al momento dell’esame, presenta l’infezione in atto.
Se le IgM e le IgG sono entrambe positive: vuol dire che l’infezione è stata contratta e potrebbe ancora essere in corso allo stato attuale o passata da poco. Per accertare con esattezza il momento in cui si è state colpite dal parassita, ci si può sottoporre ad un test ulteriore e più specifico, definito test di avidità.
Se si vuole, poi, verificare con certezza che il toxoplasma abbia oltrepassato la placenta e infettato il feto, occorre eseguire, a partire dalla quindicesima settimana, un’amniocentesi: prelevando una parte del liquido amniotico, infatti, è possibile rintracciare eventuali microrganismi nocivi al suo interno.
Cure e terapie
Se il risultato dei test evidenzia che la futura mamma è affetta da toxoplasmosi, generalmente, si procede con una terapia antibiotica, a base di spiramicina o sulfadiazina. In questo modo dovrebbero ridursi le possibilità di trasmissione dell’infezione al feto, o almeno, qualora il contagio sia già avvenuto, si dovrebbe riuscire a contrastarne l’effetto, riducendo le conseguenze dannose per il nascituro. Ricordiamo che, in molti casi, i neonati che hanno contratto la toxoplasmosi nell’utero materno nascono sani o senza sintomi evidenti. Tuttavia, è sempre bene monitorare il bambino per tutto il primo anno di vita, intervenendo, qualora necessario, con la somministrazione di farmaci specifici.